Ammazzano più dieci penne che dieci pistole

A guerra e repressione rispondiamo con la società della cura  Negli ultimi anni abbiamo osservato l’escalation bellica espandersi a livello globale, portando all’esacerbazione di conflitti in tutto il mondo e all’implementazione di politiche di riarmo.  Come giovani e student3 ci siamo sempre mobilitat3 in sostegno ai popoli resistenti e contro le guerre imperialiste, in quanto…

leggi tutto…

·

A guerra e repressione rispondiamo con la società della cura 

Negli ultimi anni abbiamo osservato l’escalation bellica espandersi a livello globale, portando all’esacerbazione di conflitti in tutto il mondo e all’implementazione di politiche di riarmo

Come giovani e student3 ci siamo sempre mobilitat3 in sostegno ai popoli resistenti e contro le guerre imperialiste, in quanto significa opporsi a un intero sistema economico, politico e sociale, basato sullo sfruttamento e la prevaricazione. 

Per questo è necessario adottare una prospettiva decoloniale, che metta al centro le voci e i bisogni delle popolazioni e dei territori, che rifiuti logiche estrattiviste e imperialiste; per questo il principio cardine deve essere quello dell’intersezionalità delle lotte, che ci permette di riconoscere le radici sistemiche di quel che combattiamo e di immaginare mondi diversi

Il mondo che vogliamo è quello della società della cura: una società priva del mito della meritocrazia e da dinamiche di sopraffazione, basata invece sull’ascolto dei bisogni e sull’attenzione alle fragilità, come stimolo per la costruzione di un sistema che risponda realmente alle esigenze di tutt3

Le politiche di riarmo e le narrazioni dei governi portano spesso l’attenzione sul concetto di “sicurezza”: al loro modello basato sulla militarizzazione degli spazi, sulla repressione e la criminalizzazione delle soggettività marginalizzate e dissidenti e sull’aumento della spesa militare, noi rispondiamo dicendo che sicurezza per noi sono diritti garantiti, servizi pubblici accessibili e l’abolizione di povertà e precariato. Solo così possiamo vedere garantito il diritto al futuro per le giovani generazioni e per tutt3.

Contro la militarizzazione delle scuole e delle Università 

Attualmente il nostro paese sta vedendo una crescente militarizzazione della società, in perfetta continuità con la politica internazionale, che ha trovato la sua espressione più visibile all’interno dei luoghi della formazione. I governi hanno sfruttato e strumentalizzato la scuola come vetrina della propria politica, trascurando la sua funzione formativa e relegandola a mero strumento di riproduzione e adesione alle logiche militariste e nazionaliste. In questo contesto, si assiste al tentativo di indirizzare le nuove generazioni verso la carriera militare, proponendo corsi di formazione che esaltano valori come ordine, disciplina e l’incontestabilità dell’autorità, in netto contrasto con i principi di libertà e autodeterminazione

Le politiche belliche internazionali e la crescente militarizzazione dei luoghi della formazione sono strettamente legate. Le grandi aziende del settore bellico, come Leonardo S.p.A. e Fincantieri, influenzano pesantemente i percorsi formativi dell3 student3, attraverso percorsi di alternanza scuola-lavoro (PCTO), collaborazioni con università, programmi di ricerca e attività di reclutamento, tra cui il finanziamento di master e borse di studio in ambiti legati alla difesa; le università italiane, tra cui il Politecnico di Milano, l’Università di Pisa e la Sapienza di Roma, sono tra gli atenei più coinvolti in queste dinamiche, facendo evolvere i loro programmi in direzione di competenze utili per l’industria militare, come la sicurezza informatica, l’ingegneria aerospaziale e la tecnologia militare. Possiamo quindi leggere un piano ben preciso e trasversale a tutta la filiera formativa volto a orientare l3 giovani verso il settore militare e industriale e a normalizzare logiche e dinamiche autoritarie e securitarie

Di fronte a questa rete capillare di influenze, è fondamentale organizzare una risposta dal basso per liberare i saperi dalla militarizzazione. I luoghi della formazione devono essere un luogo di emancipazione, non di addestramento alla guerra; l’educazione deve essere uno strumento per promuovere la giustizia sociale e la solidarietà, non per la perpetuazione della violenza. 

In questo senso, la didattica deve essere uno strumento di trasformazione sociale, un terreno fertile per la costruzione di una società senza le logiche della violenza e della prevaricazione. Solo con un impegno collettivo, che coinvolga l’intera comunità educativa, possiamo contrastare la militarizzazione della scuola e lavorare per un futuro in cui la violenza non sia più vista come una soluzione, ma come un’aberrazione da superare attraverso la cooperazione e l’internazionalismo dei popoli. È necessario ripensare i curriculum formativi per includere corsi che esplorino le cause della guerra e della violenza e le alternative non violente per la risoluzione dei conflitti. La formazione non deve limitarsi a trasmettere conoscenze tecniche, ma deve fornire gli strumenti per diventare cittadin3 consapevol3, critic3 e impegnat3. È fondamentale inoltre che l’analisi delle politiche nazionali e internazionali diventi una pratica quotidiana nei luoghi della formazione, per costruire una generazione di giovani pront3 a partecipare attivamente alla vita democratica, senza paura di esprimere il proprio dissenso.

Un altro tema centrale per quanto riguarda i luoghi della conoscenza è quello della produzione di saperi: da sempre gli ambiti di ricerca STEM e delle scienze sociali hanno avuto importanti ricadute sull’organizzazione e la concezione delle società. Si tratta a tutti gli effetti di rivoluzioni culturali. Negli anni si è però sempre di più normalizzata la retorica della neutralità politica nell’ambito della ricerca, portando la moralità e la consapevolezza dell’ampliamento dei saperi e dell’avanzamento tecnologico in secondo piano. Con poche difficoltà quindi, le disuguaglianze sociali, legate a scenari di guerra e repressivi, prendono piede con l’avallo della ricerca. Le università e gli enti di ricerca diventano così produttori di conoscenze asservite alla filiera bellica: crediamo che il modo di slegare la ricerca da queste dinamiche sia quella di avere dei finanziamenti pubblici reali, e l’esplicita dichiarazione dell’uso finale delle conoscenze prodotte (per avere una coscienza sul dual-use). 

Inoltre è fondamentale avere trasparenza nella ricerca, imponendo agli enti di dichiarare accordi di ricerca bellica e in ambito delle energie fossili. È necessario coscientizzare i luoghi della conoscenza, e le soggettività che ne fanno parte. Ciò deve passare dalla formazione e dalla controinformazione, per la costruzione di un pensiero critico al modello di ricerca moderno, indirizzato all’utilità economica dei privati

E’ necessario mettere in campo strumenti di dissenso, che partano e siano sentiti realmente dall3 student3 e dall3 ricercator3, come il boicottaggio accademico e l’obiezione di ricerca: mezzi utili per smontare il sistema bellico, partendo dalle sue fondamenta. Anche per questo abbiamo riaperto la nostra mappatura degli accordi tra luoghi della conoscenza e le aziende belliche e del fossile, Altro Sapere per un Altro Pianeta (ASAP): contrastiamo questi rapporti e blocchiamo la loro implementazione, perché didattica e ricerca siano libere e svincolate da logiche di profitto, sfruttamento, prevaricazione e colonialismo.

Portare avanti una lotta sistemica antimilitarista attraverso la convergenza 

Come giovani sappiamo però che l’azione politica da portare avanti in Italia per contrastare l’escalation bellica e la deriva repressiva debba riguardare tutte le sfere della società. È necessaria un’azione politica capace di disinnescare tutta la filiera bellica e la macchina repressiva messa in campo dal Governo. Bisogna agire tramite il sabotaggio dell’invio di armi dai porti, tramite gli scioperi sindacali per bloccare la produzione bellica, con le azioni di disobbedienza civile, con il boicotaggio accademico degli accordi fra le università italiane e quelle sioniste, con la costruzione di mobilitazione e di massa critica dalle scuole e dai luoghi della formazione tutti. 

Per fare ciò è necessario che i contenuti supportati in questo manifesto e in generale all’interno delle mobilitazioni dell’ultimo anno siano portati avanti tramite un’azione unitaria e diffusa.

Sarebbe ipocrita la pretesa di un fronte unico e compatto su tutti i temi politici che stanno risultando divisi all’interno del movimento di solidarietà per la resistenza palestinese, visto che permangono profonde spaccature e divisione all’interno della stessa azione sociale e 

sindacale italiana. Nel momento in cui però la posta in gioco è questa, è necessario riuscire ad avere la capacità dialettica di trovare elementi politici comuni di risonanza che sappiano convergere sotto gli stessi appuntamenti mobilitativi. Questo tipo di azione ovviamente, per quanto riguarda la mobilitazione per la Palestina, non può e non deve provenire da parte di 

organizzazioni italiane né può essere pretesa da queste, ma deve vedere l’individuazione delle sigle palestinesi come soggetti d’avanguardia e protagoniste di un grande e disteso movimento di lotta. La stessa prospettiva crediamo debba essere attuata da parte di tutto 

l’associazionismo e l’attivismo del paese contro il Ddl 1660, in quanto tema che tocca tutt3 e su cui bisogna avere la capacità di costruire mobilitazioni di popolo. 

Costruire mobilitazione di massa vuol dire però non limitarsi ad essere somma di sigle, ma riuscire ad avviare un processo politico capace di intercettare quella di fetta di Paese fuori dall’attivismo e dalle nostre assemblee. In tal senso la pratica della convergenza non risulta essere solo utile, ma necessaria. Bisogna riconoscere come in molt3 ci siamo appellat3 a questa negli ultimi anni, riuscendo di fatti comunque a compiere avanzamenti nella costruzione di un fronte sociale di lotta contro l’attuale governo. E’ però necessario allo stesso tempo che si riesca a produrre un avanzamento tale da riuscire a sostanziarla, costruendo processi comuni che sappiano andare oltre le sigle e raggiungere un ampio raggio di persone, oltre che ad avere una tensione trasformativa in senso complessivo e sistemico. 

La convergenza che si può mettere in campo, in primis per quanto riguarda la questione bellica e quella repressiva, può e deve muovere da un’eterogeneità nelle pratiche di lotta. Dall’occupazione dei porti per sabotare l’invio di armi ad Israele agli scioperi, dalle occupazioni delle scuole alle acampade nelle università, è necessario costruire un fronte di lotta capace di esprimersi anche in diverse forme e modalità. 

Questo manifesto intende dunque dare un prospettiva generazionale sulla guerra e sulla repressione che non sia solo di analisi, ma soprattutto programmatica per la costruzione di un ampio processo di mobilitazione. 

Per questo motivo porteremo questi contenuti nelle manifestazioni nazionali del 30 Novembre e del 14 Dicembre, oltre che sui territori e all’interno delle scuole e delle università, per allargare questo fronte di lotta e contrastare la deriva autoritaria e militarista del Paese.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *